Seconda parte dell’interessante intervista di Roberto Bordi a Vittorio Benvenuti, volto storico della tifoseria doriana.
Il calcio totale non era ancora stato concepito: figuriamoci il tiki-taka. Nel secondo dopoguerra, si sono scontrati a lungo due modi opposti di organizzare il gioco del calcio: il metodo e il sistema.
Il metodo (detto anche WW dallo schieramento stilizzato dei giocatori in campo) si basava su contropiede, atteggiamento difensivo e un centromediano a fare da cerniera tra le due fasi, mentre il cosiddetto sistema (WM) praticava un gioco più arioso sviluppato più che altro in orizzontale.
È in questo scenario “tattico” che Vittorio Benvenuti si innamora della Sampdoria.
«Allora si giocava con il libero e i ruoli erano ben definiti. C’erano le ali e gli interni. I numeri andavano dall’1 all’11. Il 5 era il libero, il 7 l’ala destra e l’11 l’ala sinistra. Un altro calcio».
Ed è proprio secondo i dettami della tattica di allora, che Vittorio dispone nel suo top-11 ideale i giocatori in campo. L’epoca è quella compresa tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Quando Vittorio era piccolo e i calciatori della Sampdoria apparivano ai suoi occhi come degli eroi omerici. Che grazie a footballuser.com, sono stati inseriti nella stessa formazione secondo il vecchio e caro WM.
Cominciamo dal portiere.
«Ovviamente Pietro Battara. Dalla stagione 1962/1963 si alternava di continuo con Sattolo. Che confusione… Bastava una cappella e zac!, uno prendeva il posto dell’altro. Ma Battara aveva una marcia in più e i tifosi del Napoli te lo possono confermare. Quando il Doria giocava al San Paolo, Pietro era una saracinesca. Si partiva con la sicurezza che, minimo, si sarebbe pareggiato 0-0. E poi Battara ha un altro merito indiscutibile. Quello di avere scoperto – e poi svezzato alla Sampdoria da preparatore dei portieri – un certo Gianluca Pagliuca».
Terzino destro, anzi, numero 2.
«Il mitico Guido Vincenzi. Veniva dall’Inter (con cui aveva vinto due Scudetti) in cambio di “Tacchino freddo” Firmani. A Milano lo davano per finito a causa di un intervento al ginocchio. E infatti rimase alla Samp 11 anni! Era uno dei miei giocatori preferiti. Anno 1959, stavo ancora studiando ragioneria al Vittorio Emanuele di Largo della Zecca. Un giorno vado allo stadio della Nafta (l’attuale Carlini) per seguire un allenamento. E all’improvviso me lo trovo davanti. Alto. Gigantesco. Un semidio! Che tipo di giocatore era? Una montagna invalicabile per l’ala sinistra avversaria. Avevi sempre l’impressione che non potessero superarlo. Ci sbattevi sempre contro. Immenso Guido, purtroppo scomparso troppo presto».
Terzino sinistro. «Giovanni Delfino detto “Martello”. Il soprannome derivava dal fatto che picchiava, si batteva, si buttava tra le gambe dell’avversario piuttosto che lasciarselo scappare. Anzi, si faceva calpestare! Un grandissimo combattente, non molto tecnico ma tutto cuore e grinta. Nel 1968 andiamo in trasferta a Pisa con il treno speciale. È domenica mattina. Stiamo facendo un giro in piazza dei Miracoli quando chi ci troviamo davanti? Lui e Bob Vieri. Delfino era elegantissimo, vestito in doppiopetto. Tanto azzimato di giorno, quanto ruspante in campo».
Numero 4. «Mario Bergamaschi. Era un interno di centrocampo con compiti di rottura del gioco avversario. All’occorrenza faceva il difensore ed era arrivato al Doria dal Milan. A Bergamaschi mi lega un ricordo particolare. Era il giorno di Pasqua della stagione del quarto posto e a Marassi c’era Sampdoria-Inter. I nostri, per dovere di ospitalità, giocavano in una candida maglia bianca, che dopo 10 minuti aveva già cambiato colore a causa del fango che copriva l’erba. Nella ripresa, sul risultato di 1-1, Bergamaschi si infortuna. Le sostituzioni non sono ammesse e Monzeglio lo relega all’ala destra, sotto la tribuna. Sembra una jattura e invece Bergamaschi, pur giocando da fermo, dotato com’è di una certa classe propizia i due gol finali di Brighenti che chiudono il match sul 4-2. Che goduria! Merito suo e della Sud, che in quella partita ha trascinato tutta la squadra».
Il libero. «Gaudenzio Bernasconi detto “orsacchiotto”. Lì dietro ogni pallone, alto o basso che fosse, era suo. Anche se personalmente lo ricordo per altri due motivi. Il primo. Diamo spazio alla goliardia. Quando lavoravo in banca, avevo un collega che di secondo mestiere faceva il giornalista. Si chiamava Riccardo Carovino e scriveva sul Corriere del Pomeriggio. Una volta un amico comune gli chiede: “Riccardo, tu che vai negli spogliatoi e vedi i calciatori del Doria nudi… Toglimi una curiosità. Chi ce l’ha più lungo?”. La geniale risposta di Carovino: “Brighenti. Ma Bernasconi è quello che ce l’ha più grosso”! Secondo aneddoto. Da piccolo andavo in campagna a Masone e tutte le settimane compravo Topolino. Ogni numero parlava di una squadra diversa. Quando fu il turno della Sampdoria, qual è stato l’unico giocatore ad avere l’onore di comparire in foto? Bernasconi, che era il nostro giocatore più rappresentativo. Il nostro capitano».
Numero 6. «Giancarlo Salvi: l’eroe blucerchiato. Uno che la maglia della Samp la onorava davvero. Un giorno vado al “Pio XII” dove la Primavera gioca contro il Casale. Vicino a me siede una coppia di mezza età che, quando Salvi ha la palla tra i piedi, è come ipnotizzata. A un certo punto la donna bisbiglia al marito: “Ieri sera, quando eravamo a tavola, prima di mangiare la minestra Giancarlo ha pianto. Aveva paura che il mister non lo facesse giocare”. Ovviamente, si trattava dei genitori di Salvi. Mi pare di vederlo ancora adesso, portato in trionfo dalla folla in quel di Milano, dopo lo spareggio con il Modena. Grazie di tutto, ragazzo di Dego».
L’ala destra. «Era accusato di indolenza, Bruno Mora. Questo fino a quando è rimasto alla Sampdoria. Poi, dopo averlo ceduto alla Juve in cambio di Lojodice e soldi, tutti a rimpiangerlo! Quando giocava da noi era molto giovane e non ancora affermato. Aveva un fisico gracilino ma era un fulmine, la classica ala tutta tecnica e corsa. Ha giocato anche nel Milan e in Nazionale».
Il play-maker. «E chi se non Ernst Ocwirk? Partiamo da una premessa. Noi lo chiamavamo “Ossi”. Era un centrocampista di stazza dotato di una tecnica sopraffina. Comandava il gioco. In campo esercitava un predominio tecnico-tattico, sventagliando la palla da una fascia all’altra. Probabilmente era il giocatore più forte della Sampdoria del quarto posto. Ricordo che allora gli Inglesi si consideravano i migliori al mondo nel calcio. Sai, loro avevano inventato il football! Avevano una presunzione di superiorità pazzesca. Praticamente, l’Inghilterra stava al resto del mondo come il Genoa a Genova… Ma torniamo a noi. Ogni anno la loro Federazione organizzava a Wembley un’amichevole con una selezione di giocatori europei. Chi era il loro capitano? Ocwirk in persona. Una cosa che ci inorgogliva molto. Era come Silvan. Aveva la bacchetta magica».
Il centravanti. «Sergio Brighenti era una forza della natura. Il prototipo del centrattacco, forse addirittura meglio di Felice Levratto… La stagione del quarto posto fece quattro gol nella stessa partita, contro l’Inter. Si dice che quell’anno non abbia vinto il pallone d’oro per colpa di Sivori, che lo scavalcò nella classifica cannonieri dopo la farsa del 9-1 rifilato all’Inter dalla Juventus. In realtà, a parte il pallone d’oro, in quegli anni chi segnava più gol vinceva il premio Caltex sportsman dell’anno. A me risulta che abbia perso quel riconoscimento, ma potrei sbagliarmi».
Il numero 10. «Vuoi farmi commuovere. Nacka Skoglund. Una mezz’ala d’altri tempi… Quando giocava era uno spettacolo. Una volta lo portarono addirittura in trionfo. Allora non era mica come oggi! I giocatori si cambiavano negli spogliatoi sotto i distinti e poi uscivano sotto la Sud. Era basso, con i capelli ossigenati e il viziaccio della bottiglia. Ma a essere ubriacati erano i suoi avversari. Veniva dall’Inter. L’aneddoto? Eccolo. Nel giugno 1960 facciamo un’amichevole col Barcellona, annunciata al Palazzo della Borsa di piazza de Ferrari. Ricordo quest’insegna luminosa in cima al Palazzo, con una striscia scorrevole che snocciolava uno per uno i nomi dei giocatori del Barcellona. Arriva il giorno della partita. Vinciamo 4-0 e Skoglund realizza una giocata incredibile. Gli arriva un lancio lungo dalle retrovie, la palla lo scavalca ma lui, con l’agilità di un ballerino, la stoppa con il tacco: un gesto tecnico che valeva da solo il prezzo del biglietto. Quel giorno in tribuna c’erano Angelo Moratti ed Helenio Herrera. Che alla fine della partita disse: “Presidente, all’Inter verrebbe bene quello svedese lì”. Non ti dico la faccia di Moratti… È sbiancato! Sai perché? Lo aveva appena svenduto alla Sampdoria!».
L’ala sinistra. «Tito Cucchiaroni era devastante. Apparentemente dimesso, non aveva l’aspetto dell’atleta. Era pelato e piccolino. Ma in campo era imprendibile e poi aveva una specialità: le punizioni. Tutte le volte che la Sampdoria ne guadagnava una, dalla Sud partiva un coro: prima flebile, poi sempre più forte. “Tito! Tito! Tito! Tito!”. E Tito, che in cuor suo sorrideva, andava lemme lemme verso il pallone. Il tempo di prendere la rincorsa e pum!, la metteva all’angolino dopo avere aggirato la barriera. Quante volte lo hanno portato in trionfo. Più di Skoglund».
ROBERTO BORDI
4 commenti
Ho letto la formazione su citata e noto alcuni errori. Penso si riferisca all’ultimo anno di Bruno Mora, quindi il 1960, anno in cui a Ottobre Mora venne ceduto alla Juventus in cambio di Lojodici e 160 milioni. La Samp arrivò quarta e senza quella cessione avrebbe lottato fino alla fine per il titolo.
L’allenatore era Eraldo Monzeglio e il presidente Ravano. Ecco la formazione:
Sattolo
Vincenzi, Marocchi, Bergamaschi, Bernasconi, Vicini, Mora (Lojodice) Ockwirk, Brighenri (capo cannoniere con 27 reti)Skoglund, Cucchiaroni.
Riserve: Risni, Tomasin, Delfino, Vergazzola, Recagno, Toschi, Uzzecchini
Siverox, tutto giusto…tranne il portiere titolare che era Ugo Rosin…Sattolo era la sua riserva. Me lo ricordo perché abbiamo beccato parecchi goal con tiri”alti”, cioè poco sotto la traversa, dato che Rosin era alto appena 1.70 …..altri tempi, anche per i portieri, che ora partono da 1.90 in su.
Comunque che nostalgia per i “terribili vecchietti” dell’attacco…quell’anno a Marassi non perdemmo mai: tutte vittorie tranne 2 pareggi: con il Milan di Altafini e Rivera (2a 2) e con la “bestia nera” Spal (0 a 0). Ero abbonato e me le vidi tutte.
Anch’io ho sempre pensato che avremmo potuto lottare per il titolo, però a pensarci bene era troppo forte il divario tra la Samp di Marassi e quella da trasferta. A Udine, addirittura, abbiamo perso 7-1!!
Buongiorno, mi permetto di rispondere alle vostre riserve. Il top-11 costruito nell’articolo non si riferisce alla stagione del quarto posto (1960/1961) ma a un periodo più lungo. Se ci fate caso, l’ho scritto chiaramente. “Ed è proprio secondo i dettami della tattica di allora, che Vittorio dispone nel suo top-11 ideale i giocatori in campo. L’epoca è quella compresa tra gli anni Cinquanta e Sessanta”. Grazie per la lettura e alla prossima.