Quella delle partite a Napoli, dalla metà degli anni “sessanta” fino ai primi “settanta”, è una bella storia che ha un nome di riferimento, Pietro Battara.
Quel portiere, mai dimenticato dai tifosi doriani, era diventato, per i napoletani, un vero incubo. Si ricordano ancora oggi quelle parate strepitose che permisero alla Samp di restare imbattuta consecutivamente per sei campionati con un bottino di quattro pareggi e due vittorie.
Il 7 febbraio 1971, ad esempio, portammo a casa uno 0-0 per merito suo che, oltre a sfoderare grandi numeri tra i pali, giocò la partita con un problema non da poco per un portiere.
Il Corriere dello Sport titolò così “Imbattibile Battara a Napoli anche con il pollice ingessato.”
Nella città del Vesuvio, per chi ha vissuto quel tempo, il suo nome è sinonimo di leggenda.
Di quelle partite ne ricordo una in particolare. Fu la mia trasferta più lunga. 3 marzo 1968. Partimmo dalla stazione di Sampierdarena, con il treno speciale, verso la mezzanotte.
Avevo avvisato le mie cugine super doriane che a quell’ora avevano esposto un grande bandiera dalla finestra di Via Buranello, di fronte alla ferrovia, e che salutai al passaggio del convoglio festante, con il consueto “Doria, Doria, Doria……” Il viaggio fu alquanto fantozziano.
Il mio gruppo era composto da cinque persone e dopo i primi momenti di entusiasmo si cercò tutti il modo migliore per passare la notte.
Mario e Pino pensarono bene di sistemarsi sulle…reti porta valigie. Non ho mai capito come hanno fatto a dormire.
Per gli altri, invece, non rimase che allungare le gambe e aspettare l’arrivo in mattinata.
Ancora oggi se guardo le fotografie scattate in Piazza del Municipio, davanti al Maschio Angioino, mi sembra di vedere cinque zombi fusi e mezzi addormentati. Fu la mia prima volta nel luogo natio di mio padre che mancava di vedere da ben 45 anni. G
li telefonai e fui felice di sentire la sua gioia quasi fosse traslata la sua presenza nella mia persona. Dopo aver effettuato un mini giro turistico nel quale peraltro scoprii che in una delle strade principali, Corso Umberto, c’era una delle più importanti farmacie della città che aveva una grande insegna con il mio cognome, venne l’ora di pranzo ed ovviamente fu facile il menu: pizza per tutti!
E poi arrivò il momento della partita.
Devo dire che quel Napoli cominciava ad avere forti ambizioni specialmente dopo l’ingaggio di quello che fu sicuramente il precursore di Maradona: Omar Sivori, “El cabezon” come era soprannominato in Argentina, nonché uno dei componenti, con Maschio e Angelillo, del famoso trio degli “Angeli dalla faccia sporca”. Un grande giocatore.
Uno che il 21 febbraio 1962 incantò il Santiago Bernabeu con una fantastica rete che permise alla Juventus di sbancare per prima quel campo, sempre imbattuto, dove si esibiva il pluricampione europeo Real Madrid che vantava nelle sue fila tra i migliori atleti del mondo come Puskas, Gento e il divino Alfredo Di Stefano, “La saeta rubia”, considerato da molti come il più grande giocatore di tutti i tempi.
Ma torniamo al San Paolo. Quello stadio ci fece un’impressione enorme. Sembrava una grande cattedrale nel deserto. E la cosa che più mi colpì fu il constatare che pareva di essere a Teheran o Estefahan.
Ho dimenticato di dire, infatti, che uno dei cinque componenti del nostro gruppo era una ragazza, la “mitica” Graziella, che poi divenne Presidente del Sampdoria Club Certosa nonché dirigente della Federclubs. Noi stavamo nell’ anello superiore mischiati coi tifosi napoletani. Così era l’uso a quei tempi, non esistevano gabbie e altre stupidaggini che sono oggi abituali.
E tutti, ma proprio tutti, la guardavano con occhi increduli perché era l’unica donna presente sugli spalti. Ecco il perché del richiamo…iraniano.
La partita, comunque, si incanalò per il verso giusto perché ci pensò bene il solito “Corvo” Francesconi a portarci in vantaggio al 21’ del primo tempo. Ad un certo punto ci convincemmo che avremmo potuto fare il colpo gobbo forti anche della presenza del solito Battara tra i pali. Ma non avevamo fatto i conti con Sivori che pareggiò al 16’ del secondo tempo. Fu comunque un ottimo risultato (1-1) che portammo a casa. Il viaggio di ritorno, pur assai affaticati, fu più lieve dell’andata.
Arrivammo alle 8.00 alla stazione di Principe ed io, anziché a casa, mi recai direttamente a scuola perché avevo delle lezioni importanti essendo quello l’anno dell’esame di stato.
Al professore di tecnica bancaria che aveva in previsione diverse interrogazioni chiesi bonariamente se per l’occasione poteva esonerarmi avendo passato la notte in treno di ritorno da Napoli. “Sa, dissi, sono stato a vedere la Sampdoria!”
Non potete immaginare la sua reazione! Anche perché non era un professore qualunque ma nientemeno che Pietro Campodonico, notissimo genoano. Ma devo dire che fu molto comprensivo anche se il suo Genoa navigava sempre in cattive acque. Ci si sfotteva sempre, ma con me, soprattutto, è sempre stato un gran signore e devo sempre ringraziarlo perché, anni dopo, mi ha presentato a Giorgio Adriani, caporedattore sportivo del “Lavoro”, e da quel giorno, e per dieci anni, ho potuto scrivere i miei strampalati pezzi sul tifo blucerchiato. Alè.