Le riflessioni dello storico tifoso Roberto C. in un momento difficile per il Paese: come uscire in modo evoluto da questa situazione d’emergenza legata al Covid? Necessario imparare dalle difficoltà. Fra un calice, un libro e un pezzo di colomba, Roberto ci dice la sua:
Stiamo tutti navigando in un turbine impazzito in cui vengono spazzate via abitudini e certezze che avevano caratterizzato la nostra vita precedente, quella al momento cancellata dal ciclone “democratico” del coronavirus.
Un germe egualitario e pluralista che non conosce confini, stato sociale e appartenenza “nobiliare”. Siamo tutti sulla stessa barca e con questa dovremmo raggiungere l’approdo della salvezza, la guarigione, il punto zero, ma rinnovato, da cui è partita questa infelice e paritetica pandemia. Ho scritto una lettera a questo cattivo compagno di strada e la voglio qui riportare prima di passare all’argomento che caratterizza questo blog. E’ un po’ lunga, lo capisco, e in altri momenti mi sarei astenuto dal pubblicarla, ma ora…ora tra le pareti invalicabili di casa nostra abbiamo tutto il tempo per divagare tra argomenti più vari, come la lettura, che possano traghettarci a sera in attesa di un altro giorno uguale.
Caro Coronavirus,
forse ti stupirai se ti chiamo con un aggettivo affettuoso ma credo che, al fondo di ogni valutazione che obiettivamente non può che portare al malanimo più diffuso nei tuoi confronti, in questa tua improvvisa, e non so se imprevista, venuta tra noi, penso appunto che ci stia anche qualche considerazione amichevole per i frutti che potrebbe portare una visita così tanto deprecata.
Uso il condizionale anche se le ragioni dettate dalla mia età dovrebbero indirizzarmi verso stime non propriamente ottimistiche.
Ho deciso di scriverti nel momento in cui ancora giaci tra i corpi e le anime di questo mondo ormai diventato totale preda della tua nefasta presenza che aggroviglia le nostre vite, e non dopo la partenza che tutti auspichiamo prossima.
In queste lunghe settimane di forzata clausura si ha la sensazione tipica dei momenti in cui una comunità, o il mondo intero, sentendosi aggredita, in questo caso da un nemico invisibile e difficilmente contrastabile, si stringe tutta attorno ad un sentimento comune, una sorta di amore collettivo che sia da antidoto alla pressione, soprattutto psicologica, che deriva inevitabilmente da questa battaglia che sembrerebbe vederci soccombere.
Il mio timore è che tutte queste manifestazioni siano il frutto soprattutto di risvolti emotivi, inevitabili in un tale contesto, ma che non abbiano una salda convinzione tale da mettere radici definitive in questa nostra società.
Abbiamo cominciato con la produzione di spettacoli improvvisati alle finestre. Canti, balli, suoni, invocazioni. Tutti pronti a esibire la propria forza di contrasto a questa tua prepotenza. Ma ora anche queste rassegne spettacolari hanno esaurito quell’estemporanea proposta di gioia apparente. Forse, anzi soprattutto, perché tali esternazioni confliggono con macabra evidenza verso le immagini di funerei camion che trasportano vite ormai passate senza il saluto che si deve ogni qualvolta un congiunto abbandona questa triste terra.
Mi sono rivolto a te benignamente perché ho pensato che tale tragica piega della nostra vita avrebbe potuto portare con sé la consapevolezza diffusa di che cosa significhi essere uomini. Di comprendere, finalmente, che non il continuo perseguimento del profitto e l’infinita scalata verso obiettivi di volta in volta spostati, ma la ricerca del bene comune, dell’amore verso noi stessi e gli altri e segnatamente nei confronti di questo minuscolo pianeta che ci ospita, sia decisamente l’unica ragione che giustifichi l’esistenza dell’essere umano.
Bisognerebbe mettere una pietra tombale su questa società del turbo capitalismo che porta solo grandi ingiustizie ed enormi divisioni tra i popoli.
Se dessimo retta a tutte le espressioni di bene che si sviluppano nell’etere dei media più diversi dovremmo dedurne che alla fine ci sarà un consolidamento nella struttura interpersonale, nella comunità di tutti gli esseri umani. Il futuro prossimo dovrebbe essere il tempo di una felice rinascita, la ricostruzione del mondo su basi più giuste e oneste.
Ma credo, purtroppo, che non sarà così. Ora sembra che sia d’attualità la proposizione di ogni rettitudine, amore e giustizia. Eroi e santi laici manifestano l’aspetto migliore dell’uomo. Li vediamo tutti i giorni nei posti in cui profondono tutta la loro energia nel contrastare in tutti i modi possibili la tua ascesa. Medici, infermieri, volontari di ogni sorta che pure ci lasciano la vita. Sembrerebbe tornata, in parte, la vita originaria e immaginaria dell’Eden, quella in cui il bene era un fatto comune e consolidato.
In fondo sarebbe così semplice la vita, specie in frangenti come questi, se tutti facessero la loro parte, se remassero all’unisono per portare la barca in acque tranquille.
Non è così, purtroppo. Il male agisce comunque, non si fa vedere e opera infidamente recando quella divisione tra le genti che porta solo sofferenze e disagi. Per ogni uomo valoroso che dona la propria vita per la comunità ce ne sono altri, malvagi, che trafficano per inquinare quella che dovrebbe essere un’unione dall’unico scopo.
Si sente dire, in questi giorni, che tutto dovrà cambiare e non si potrà tornare indietro. Ma è una pia illusione. In fondo questa che tu ci hai portato è una pandemia minore solamente ingigantita dalla grandissima diffusione mediatica che rende il mondo intero come un solo grande villaggio. Voglio essere cinico come te e non me ne voglia chi soffre ma è un discorso puramente statistico. Che sono poi queste decine di migliaia di morti di fronte ai 50 milioni (o forse anche 100) della terribile Spagnola che infestò il pianeta tra il 1918 e 1919 o i due milioni dell’Asiatica negli anni cinquanta? Poi tutto è tornato come prima come anche per il disastro economico della Grande Crisi del 1929. Sembrava anche allora che una rovina collettiva potesse portare l’umanità ad un nuovo ordine, una palingenesi definitiva che tutti abbracciasse in un sistema più equo e giusto. Non fu così. Non sarà così.
lo sappiamo. Il legno storto di moltissime genti non si può raddrizzare.
Personalmente, e grazie a te, devo dire di aver scoperto aspetti della vita fino ad oggi inesplorati. Come la struttura nuova di una giornata “obbligata” ma ben organizzata nella scelta di navigare per ogni sorta di isola culturale: libri, musica, cinema, e tutto fatto in dolce compagnia. Mi reputo fortunato, per questo, come anche, se non cambierà qualcosa, di osservare l’esterno da un punto di vista non contaminato.
E allora caro Covid 19, così come ti chiama la scienza, se puoi cerca di andartene al più presto e ti prego, nel caso dovessi tornare con una veste diversa, porta con te anche il batterio della conoscenza che, liberando il mondo dall’esiziale virus dell’ignoranza, possa fare rinascere finalmente uomo nuovo non più padrone ma amico e sodale del pianeta che ci ospita.
Si è capito, purtroppo, che non ho fiducia nell’ “uomo”. A tal proposito mi viene da fare un parallelo tra la storia che stiamo vivendo ed uno dei film più belli della storia del cinema, il capolavoro del grande genio Charlie Chaplin, “Luci della città”, un film muto del 1931 che invito i più giovani a vedere anche se non è nelle dinamiche tradizionali della nostra epoca.
C’è l’omino vagabondo Charlot che salva un milionario ubriaco che vuole suicidarsi gettandosi nel fiume, il quale, per ringraziarlo, lo porta a casa sua e lo copre di ogni ben di Dio. Ma la mattina al risveglio, e da sobrio, il riccone scaccia di casa il povero errabondo perché non riconosce più il suo eroe. E ripete questa pantomima ogni volta che lo incontra da sbronzo. Questa è la metafora, a mio parere e sfortunatamente, di quella che sarà la ripresa della vita dopo questo tornado che sta scompigliando, apparentemente, tutte le nostre certezze, economiche, sociali, lavorative, imprenditoriali, e sportive pure. Come dice quel famoso detto “Passata la festa, gabbato lo santo”. Ma vorrei tanto essere smentito. Il fatto è che l’egoismo, come elemento caratterizzante dell’antropologia, risulta un elemento imprescindibile nella natura umana per cui è naturale che ciascuno desideri riprendere le proprie fila del discorso interrotto dimenticando le promesse fatte durante il coprifuoco esistenziale al tempo del colera. Certo sarebbe bello l’esito di una presa di coscienza globale con un riequilibramento delle condizioni generali dell’ intera umanità. E non più l’esistenza di una super casta che vede 26 super capitalisti che posseggono le ricchezze di 3,8 miliardi di persone. E’ una follia! Il rischio è sempre l’indifferenza quella che vede ognuno dedito a coltivare il proprio orticello. Ce ne sarebbe da scrivere.
Ma ora sarà meglio venire al punto che riguarda il nostro blog.
Non so se capita anche a chi legge queste note ma nel momento in cui le notizie riferiscono quasi esclusivamente l’andamento della pandemia mondiale e l’inventariato quotidiano fatto di cifre riguardo i contagiati, i morti, purtroppo, i guariti ecc… tutto il resto sembra non appartenere ad un qualche interesse. Ubi maior, minor cessat. E il mondo del calcio non fa eccezione. A me sembra così lontano specie ora che, nel raffronto con realtà ben più importanti, appare nell’assurdità di quel teatrino appositamente costruito per masse troppo emotive e quindi acritiche. Bisognerebbe riuscire a riedificarlo su basi diverse e più attente al tessuto morfologico di riferimento. E quindi tutte le componenti, come un’unica mente, dovrebbero prendere coscienza di un’inevitabile revisione da effettuare nella struttura di relazione interpersonale. A cominciare da certi presidenti e dirigenti vari cui sarà utile pensare che si muovono in un contesto in cui tutte le altre componenti hanno diritto di sopravvivenza e non solo il dovere di rappresentarsi come vallette o comparse. E i calciatori, che si spera abbiano avuto “doni” intellettuali da questa esperienza obbligata tra le pareti domestiche, e pensino bene, in futuro, di riprodurre la propria immagine non come amebe solitarie circonfuse dalle solite cuffiette rintronanti e stanca cervelli ma partecipi convinti di un bene collettivo che impedisca, ad esempio, le solite profondamente immature sceneggiate e quegli atteggiamenti ieratici che non si confanno alle loro figure nel momento in cui prevale un semplice atto sportivo. Che la finiscano, tanto per cominciare, di baciare la terra facendosi il segno della croce, atto che diventa blasfemo e irriverente tanto che siano credenti quanto non lo siano affatto. Che se Dio ci fosse non sarebbe certamente interessato all’esito di una partita o ad un pallone che entra nella rete. Sarebbe una ben poca cosa. E per finire mi rivolgo ai tifosi, noi tutti. Che la smettano di essere “contro” ma se mai intensamente “pro” e con la convinzione che questo è l’atteggiamento corretto da tenere allo stadio, giusta condotta che faccia da collante al confronto sportivo con i rivali del momento. E cessino per sempre di esibire striscioni offensivi e manifestare odio e razzismo. Lasciando perdere la politica specie quella che si rifà ad ostili e perfide dittature. In questo modo si potrebbe tornare ad atteggiamenti antichi ad esempio sostenere una squadra quando difende i colori del nostro paese in competizioni internazionali. Come potrebbe essere l’Atalanta nel ricordo di tutti i morti della città la cui sorte maligna abbiamo seguito in questi tempi. O delle squadre milanesi per motivi analoghi e dimenticando ogni pensiero o atteggiamento passato che possa essere di impedimento verso questa nuova condotta improntata unicamente nella costruzione di un mondo nuovo e migliore. Perché se, viceversa, tutto rimanesse come prima, non so proprio come sarebbe il mio atteggiamento. Potrebbe essere l’inizio della fine, l’allontanamento da un mondo diventato irreparabilmente alieno. E comunque e per terminare, anche se mi sento un poco fuori posto per i motivi addotti, volendo entrare nel merito tecnico organizzativo, credo che riprendere il campionato “nonsisaquando” sia un’autentica follia che riguarda unicamente il fattore economico ma esclude ogni altra forma di partecipazione specie da parte dei tifosi. Che finale di torneo sarebbe? Un autentico pastrocchio.
Sarebbe più giusto ripartire da zero con il campionato a 22 squadre. In fondo si tratterebbe di giocare quattro partite in più magari da sistemare in giorni infrasettimanali. Sarebbe una soluzione più equa, per tutti. Ma vallo a far capire a chi ha in testa solo il fruscio delle banconote. E ricominciamo daccapo. Buona Pasqua a tutti.
6 commenti
Caro Roberto
per l’ennesima volta mi tocca farti i complimenti per come riesci a dare forma ai sentimenti, alle emozioni più intime…
Concordo con te su quasi tutta la linea: anche io temo che PASSATA LA FESTA GABBATO LO SANTO si tornerà allo squallore di sempre dove qualsiasi opinione, affermazione che differisce dalla nostra sarà strumentalizzata per polemiche che credo di poter definire senza possibilità di essere smentito a dir poco DEMENZIALI!!!
Basta vedere cos’è accaduto ieri durante l’ormai classica conferenza stampa delle 18 della Protezione Civile, alla domanda LEI FAREBBE RIPARTIRE IL CAMPIONATO? posta al direttore Rezza lo stesso ha “osato” rispondere in maniera assolutamente ironica, dichiarando in maniera chiaramente scherzosa che lui, da tifoso romanista, manderebbe tutto all’aria,con ovvio riferimento alla possibilità che la Lazio possa vincere i tricolore…APRITI CIELO!
Immediato comunicato stampa della Lazio e dichiarazioni del tipo INVECE DI FARE IL TIFOSO SI PREOCCUPI DI TROVARE IL VACCINO! parole che trovo di una sconfortante bassezza morale!
Se neanche nel pieno dell’emergenza certi personaggi riescono a redimersi che speranze possiamo avere nel futuro?
L’unica cosa sulla quale dissento Roberto è la questione sull’atteggiamento da tenere allo stadio: io qui sono decisamente meno buonista, per me a livello verbale nei 90′ vale quasi tutto ( eccezion fatta per le persone che non ci sono più, mai mi sognerei ad esempio di fare un coro contro Astori! ) lo sfottò, anche pesante e un pò becero nei confronti dei tifosi e della squadra avversaria ritengo che faccia parte del clima da stadio che da sempre esiste in Italia, l’importante è che inizi e finisca nell’arco della partita…
Un caro saluto
possiamo dire che rezza e’ stato quanto meno incauto? una battuta ironica gliela concedo in un momento come questo se sta a tavola coi suoi figli e non durante la conferenza stampa della protezione civile…detto questo la societa’ sportiva lazio si commenta da sola, lontana anni luce dai suoi stessi ultras che da tempo hanno dichiarato che dello scudetto nulla gli frega e la sola bandiera che dovrebbe sventolare per un po’ e’ quella tricolore e non perche’ abbiamo vinto i mondiali…gli ultras si stanno dimostrando migliori dei padroni del vapore e questo dovrebbe far meditare tutti quei soloni che nelle curve vedono sempre e solo il marcio e gente troglodita
p.s. nei novanta minuti di gioco a livello verbale vale quasi tutto, concordo, se si riesce a colpire senza cadere nel trito e ritrito ancora meglio, noi non siamo napoletani ad esempio per me e’ perfetto, dice tutto…caro roberto so che hai ascendenze partenopee, io una compagna di fuorigrotta, tra noi credo l ironia e l autoironia possa invece essere doverosa, un caro saluto a una mente brillante
Ma sì, caro El Cabezon, sono perfettamente d’accordo con te. Finchè si tratta di sfottò ci sta tutto. Ci mancherebbe. E’ il sale del tifo specie quello stracittadino. Le prese in giro tra cugini, come qui a Genova, sono qualcosa di unico che fanno parte della nostra storia. Mi va di ricordare ancora lo scambio tra Texo e Charlie moglie doriana e marito genoano (anche se si diceva che nella vita fossero tutto il contrario) nella trasmissione radiofonica ” A lanterna” degli anni sessanta del…..secolo passato. Il genoano Charlie dice alla moglie “Il Genoa è in ripresa!!!” e Texo (spero di scrivere bene il nome e tutto il resto in dialetto) di rimando “Ma o l’è o primo tempo che o va sempre mà”. Risposta al cianuro. A distanza di oltre 50 anni mi fa sempre scompisciare come direbbe il grande Totò.
Non va bene tutto il resto. Striscioni e cori razzisti per non dire altre schifezze. Con queste il calcio si squalifica ed è destinato a perdere credibilità e anche tifosi, alla lunga.
Un caro saluto da Roberto.
Caro Solodoria, ti racconto un paio di cose. Sono stato a Napoli, in particolare a Fuorigrotta, per la prima volta nella mia vita nell’anno 1968, precisamente il 3 aprile. Si trattava della partita con gli azzurri partenopei di Sivori e Altafini. Uno squadrone. Quella giornata l’ho raccontata in una vecchia “Memoria”. Segnò per prima la Samp al 21′ del primo tempo con il solito “corvo” Francesconi e pareggiò al 61′ Sivori, El Cabezon, l’anticipatore di Maradona. Ricordo che appena arrivato, dopo una notte in treno, telefonai a mio padre il quale si emozionava sempre quando si parlava della sua città. Figuriamoci nel ricevere una telefonata dai suoi figli (c’era anche mio fratello) proprio da lì. Poi anni dopo ho portato a Napoli i miei genitori. Mio papà mancava da oltre 50 anni. Puoi immaginare l’emozione quando siamo arrivati, passeggiare a Mergellina, in Via Caracciolo, ascoltare il rumore del mare a Santa Lucia. Eppure pur essendosi genovesizzato (e super sampdoriano) era rimasto napoletano nel midollo. Il solo parlare il dialetto lo aveva trasformato. Sembrava essere stato sempre lì. Mi ha stupito quando, in un bar di Via Toledo per il rito del caffè (mai più bevuto così buono) al momento del pagamento ha lasciato un paio di monete in più. Ho chiesto spiegazioni e mi ha detto che si trattava dell’usanza tipica del “caffè sospeso” per quelli che non potendoselo permettere potevano attingere a chi lasciava appunto il necessario per poterlo bere. Un’altra volta tornando a sera dopo aver trascorso la giornata a Capri al parcheggio dell’auto un tizio gli ha detto “dottore gliel’ho guardata tutto il giorno” e lui gli ha dato dei soldi dicendomi che “tutti dovevano campare”. Ho tanto amato mio padre e di conseguenza Napoli che sta sempre nel mio cuore. Pensa che mia moglie, genovese, è sempre stata attaccatissima a questa città tanto che, mi dice, quando era bambina sapeva a memoria le più belle canzoni napoletane. E a volte bonariamente mi “rimprovera” perchè dice che di napoletano ho solo il cognome ma vorrebbe che avessi anche la tipica parlata. Sono nato e vissuto a Genova, anzi, nella meravigliosa Genova. Sono città che amo per motivi diversi. E a proposito della tua compagna mia moglie ed io siamo rimasti favorevolomente sorpresi e felici che si, come direbbe mio papà, è”d’allà”. E quindi la salutiamo caramente unitamente a te. Ciao.
caro roberto purtroppo i miei primi ricordi di napoli non sono idilliaci comprendendo un fermo di polizia con annessa notte in guardina nel 1988 dopo un napoli sampdoria 1 a 2 per cui puoi immaginare come possa aver nel…cuore…i tifosi napoletani, questo non mi ha impedito di guardare avanti e guardare oltre pur essendo stato fieramente negli ultras tito per quasi vent anni, scusate tutti le digressioni personali ma son momenti in cui ci si racconta un po’, un saluto ed un sorriso
Ma caro Solodoria quello è stato un fatto episodico. Cose che possono succedere quando si è giovani tifosi anche un pò esuberanti. Poi con gli anni tutto viene reinterpretato. E comunque io ho parlato di Napoli e non dei tifosi che sono tutt’altra cosa. L’ho già detto e mi ripeto: mio papà così profondamente napoletano, nelle viscere direi, non sopportava il Napoli squadra. Stranezze della vita. Ciao contraccambio saluti e sorrisi.