Come resiste un giornalista dichiaratamente doriano in un mondo, quello dei media genovesi, popolato da genoani?
Abbiamo fatto una bella conversazione con Stefano Rissetto, il giornalista, tra quelli dichiaratamente doriani, che più amiamo. Non solo per la sua passione blucerchiata, sempre presente, ma anche per la sua obiettività, l’integrità intellettuale e il valore letterario dei suoi scritti.
Oltre agli articoli, ricordiamo i suoi tre romanzi sulle vicende doriane: “Goteborg Blues”, “La Grande Rimonta” e “La Ragazza di San Siro”.
Rissetto è giornalista del Corriere Mercantile dal 1991. Dal 2002 è stato assegnato alla redazione sportiva.
Ciao Stefano, quando hai iniziato a seguire la Samp (prima da tifoso e poi per lavoro)?
“Da tifoso” e “per lavoro” sono due categorie semanticamente opinabili, nella mia personale prospettiva! Comunque, al seguito del mio amatissimo padre Nerino, che lavorava in fabbrica con turni pesanti e potevo incontrare solo la domenica, vidi la prima partita il 9 aprile 1972, Sampdoria-Juventus 0-0. Da giornalista “underground” realizzai un ciclostilato nel 1977 di “controinformazione” blucerchiata. Poi mi chiamarono quelli del Graffiti, il gruppo interno al club “Lo Squalo”, chiedendomi tramite il leader Gianni Damonte di collaborare al loro ciclostilato “Graffiti Notizie”.
Quindi, nel febbraio 1980 scrissi il primo articolo per “Sampdoria Club”, grazie a Ernesto Gherardi e Dario G. Martini: una collaborazione che durò fino al 1999. Nel frattempo avevo cominciato a provare a fare il giornalista prima al “Giornale” e poi, dal giugno 1991, al “Corriere Mercantile” dove lavoro tuttora e dove, nel settembre 2002, sono stato assegnato alla redazione sportiva, dopo anni tra interni, cultura, cronaca e politica. Forse la mia provenienza dalla stampa “schierata”, underground e semiufficiale, fu una specie di “peccato originale” quanto all’ingresso nel settore, ma credo di aver fatto e di fare sempre il mio lavoro con assoluta onestà.
Come hai coniugato la tua passione con la professione di giornalista?
“Per molti anni, dal 1991 al 2002, destinato ad altro, potevo permettermi di lasciar libera la mia emotività, sia in redazione che le volte in cui andavo allo stadio.
Il mio vero sogno, in ambito sportivo, è sempre stato comunque quello di seguire un Tour de France: da ragazzo avrei voluto scrivere di ciclismo, il solo sport in cui fossi davvero bravo. Ero uno scalatore sadico che saliva sui passi dell’Appennino ligure-emiliano.
Il ciclismo è stato ed è il vero amore, con il calcio è piuttosto una questione di sesso.
Poi, quando sono stato assegnato alla Sampdoria, mi sono trovato a fronteggiare due ordini di scetticismo, relativi ad affidabilità e imparzialità. Io per esempio allo stadio ormai sono un pezzo di ghiaccio, guardo e taccio, non lascio trapelare quasi nulla: non avrei mai pensato di riuscirci ma ormai mi accetto così, pensando a come ero prima. Ma è solo questione di rispetto per una professione che spero di non disonorare troppo.
Certo, poi, aver seguito da tifoso gli anni di Boskov ti aiuta a scriverne con più sentimento quando da giornalista gli devi dire addio: la sera del 27 aprile non sono riuscito a non commuovermi, davanti alla tastiera. Ecco, posso dire che lavorando sulla Sampdoria ci metto molto sentimento, non passione e nemmeno emotività. Solo una nostalgia per quel che mi ha formato”.
Sappiamo che su tv e carta stampata locali c’è un primeggiare di “squali” genoani. I difensori delle sorti doriane, tra i giornalisti, sono delle mosche bianche. Per alcuni, anche delle pecore nere.
Come resiste, allora, un giornalista dichiaratamente doriano in un mondo, quello dei media genovesi, popolato da genoani? Hai avuto problemi nella tua carriera?
“L’ultimo problema in ordine di tempo, un infortunio fortuito e superficiale per la verità, risale a pochi giorni fa. Su un seguitissimo forum di tifosi rossoblù, sono stato mantecato di pernacchie, per via di un pezzo, comparso sul mio giornale e siglato “r.s.” ovvero “redazione sportiva”, che invece mi era stato erroneamente attribuito per via dell’equivoco sulle iniziali. Ma è futilità. Non mi capita mai di avere problemi con i lettori genoani per quanto scriva.
Per via degli ormai remoti inizi di carriera, compiuti su una rivista “di parte”, non ho mai potuto nascondermi, né d’altra parte avrei voluto. La verità è che tra chi scrive di calcio siamo nati tutti prima aspiranti calciatori, poi tifosi e quindi ci siamo trovati a provare a trasformare questa passione in un lavoro e qualcuno, relativamente tardi come me, ci è riuscito.
Sul finire dell’estate 2002 mi trovai in tribuna stampa, davanti al primo match che ho seguito per il mio giornale, con un Apple da far funzionare, davanti a Sampdoria-Lecce 4-2. E sono ancora qui.
Fondamentale, per un giornalista-tifoso, è evitare la caricatura, l’interpretazione tendenziosa, la partigianeria compiacente, il servilismo. Considero un punto di onore aver seguito più volte il Genoa, senza che alcun lettore o internauta avesse da eccepire su una singola sillaba di quanto scritto. Per il mio giornale, in quanto esperto di diritto disciplinare della redazione, nell’estate 2005 seguii tutta la vicenda del processo Genoa-Venezia, ottenendo molti riconoscimenti dalla tifoseria genoana – compresi alcuni colleghi –. Fui e sono orgoglioso di quelle attestazioni, anche se per certi versi le ritenevo improprie: nel privato ho le mie predilezioni, come tutti, nella professione però non ho mai lasciato che esse influenzassero il mio lavoro.
Ci sono poi casi in cui occorre ristabilire la verità, di fronte a travisamenti più o meno consapevoli. Occorre per esempio ribadire, e francamente non pensavo mi sarei mai trovato a doverlo fare, che le maglie dell’Amantea sono blucerchiate, in omaggio a quelle della Sampdoria e non viceversa, oppure che il primo derby festeggiato dai vincitori con una cartolina natalizia è quello del novembre 1983.
Ma si tratta per fortuna di eccezioni.
Tutto questo determina un fenomeno stranissimo. Credo di essere uno dei giornalisti di area doriana più rispettati e stimati dai colleghi e da molti tifosi di fede opposta: un atteggiamento che va oltre l’amicizia personale e che rasenta un vagheggiamento cooptativo.
Credo, per assurdo ma non troppo, di raccogliere più ostilità sul fronte che dovrebbe essere il mio; di “fuoco amico” ho fatto, faccio e temo farò amara esperienza. Ma sarebbe un discorso lunghissimo.
Quanto ai problemi in carriera, se agli esordi ci siano stati antichi ostracismi legati alla mia risaputa provenienza d’area, non saprei dire, le sensazioni restano sensazioni.
Certo è che la Genova in cui provai ad affacciarmi alla professione, tra la fine degli anni Settanta e per molto tempo, era fortemente sbilanciata e non solo nel giornalismo sportivo, ma anche nella politica dove per esempio dichiarare una fede piuttosto che un’altra aveva determinate ricadute di consenso, tanto che più di un sampdoriano dichiarava una preferenza “neutra” o negava di seguire il calcio.
Niente di strano: la situazione era quella di una città dove tra le due realtà calcistiche cittadine c’era un divario di radicamento pari a 53 anni, e la nascita della seconda era stata aspramente osteggiata negli ambienti della prima, fino a lavorare addirittura sottotraccia molti anni dopo – è storia – per determinarne lo scioglimento, ai tempi della trasformazione obbligatoria in S.p.A.
Conservo un ritaglio in cui la nascita della Sampdoria, nel commento di un importante foglio locale, veniva salutata, anziché con la benevolenza dovuta a una nuova realtà, con sarcasmo frammisto a scetticismo, sullo stile del “ma dove pensano di andare ‘sti poveracci, la somma di due debolezze non fa una forza”.
Oltre mezzo secolo di vantaggio cronologico non poteva non aver avuto effetti in ogni ambito della vita pubblica. Chi non c’era e non ha respirato quell’aria non può averne idea.
In effetti allora, parlo dei primi anni Settanta, i giornalisti sampdoriani erano davvero pochi e quei pochi o dicevano di non esserlo o non lavoravano al calcio. Per me, giovanissimo lettore e telespettatore, era davvero frustrante veder trattata la Sampdoria, per lo più dappertutto, con riconoscibilissima ostilità neppure troppo dissimulata; nella migliore delle ipotesi l’atteggiamento era una blanda neutralità.
Negli anni Settanta non dico affacciarsi al giornalismo, ma anche solo leggere un giornale o accendere la tv convalidava una sensazione magnificamente espressa da Claudio Nassi con il famoso “noi siamo i negri di Genova”.
Gli anni sono passati, la storia ha fatto il suo corso, molte cose sono cambiate ma ognuno non sceglie il tempo in cui vivere”.
3 commenti
stupendo!!! complimenti anche da papà!!!
La lobby bibina esiste in tutti i settori, ma soprattutto è una lobby o meglio una loggia politico-finanziaria: basta pensare alla vicenda Berneschi-Preziosi.
Giacomo
Grazie, amici. Vi seguo da quando trovai la vostra cartolina inaugurale sul banco del negozio di vico del Fieno dei miei amici Giulio e Ale, tra l’altro il reparto maternità dei miei libri. Lo slogan «un blog che esce di foresta» mi bastò per capire che c’era coraggio, altruismo e fantasia 😉