Il ricordo del Fedelissimo Vittorio Benvenuti
«60 mila spettatori e passa. A tanto arrivava la capienza dello stadio Ferraris. Nelle giornate di grazia tutta la città era stipata lì dentro, con i tifosi schiacciati l’uno sull’altro».
Sono passati più di sessant’anni dalla prima partita della Sampdoria vista dal vivo da Vittorio Benvenuti, storico volto della tifoseria blucerchiata. Per la cronaca, un 2-0 all’Inter deciso dalle reti di Galassi e “Nano” Bassetto. Era il 24 maggio 1953. Ma il ricordo della forma, dell’atmosfera, dell’odore del vecchio stadio è ancora nitido nella sua mente e nelle sue narici.
«Il Ferraris, ristrutturato dopo la guerra, aveva i distinti su due piani e quattro curvette di raccordo tra gradinate, distinti e tribuna. Il biglietto si comprava ai botteghini e per andare in curva c’era un unico tagliando: spettava a te decidere se andare in Nord o in Sud.
Oggi tutti i settori dello stadio sono dotati di seggiolini. Piccoli e scomodi, ma meglio di niente. Mentre in passato, per non sedersi sui gradoni di pietra, bisognava comprare un cuscinetto (o portarselo da casa).
«Fuori dallo stadio – continua Vittorio – c’erano addirittura i banchetti che li vendevano, di polistirolo rivestito di stoffa, oppure di carta riempita di paglia. Se non ricordo male, questi ultimi costavano 200 lire e quando l’arbitraggio lasciava a desiderare, si usava lanciarli in campo a fine partita. Poi qualcuno li raccoglieva e due settimane dopo li rimetteva in vendita come nuovi…».
Le gradinate e il secondo livello dei distinti non erano coperti: un bel problema in caso di pioggia.
«A volte, in partite in cui l’affluenza di pubblico era limitata – magari anche per le avverse condizioni atmosferiche – capitava che aprissero le porte fra i distinti e le gradinate per consentire a chi lo voleva di andare di sotto a trovare riparo (o di sopra a vedere meglio la partita). Una cosa impossibile durante le partite di cartello, quando eravamo tutti stipati, stritolati come sardine. Sentivo il fiato sul collo di chi era in piedi dietro di me, i colpi di tosse, l’alito… Per non parlare degli ombrelli che mi facevano sgocciolare l’acqua gelida lungo la schiena».
Gli spettatori erano vestiti in giacca e cravatta, elegantissimi in confronto a oggi, coperti da lunghe file di ombrelli neri in caso di pioggia. Ma da cosa si capiva che giocava la Sampdoria?
«Non c’erano sciarpe né bandiere, ma molti portavano il distintivo del Doria nell’occhiello della giacca. Nella curvetta lato Sud trovava posto l’unico striscione blucerchiato, piccolo in confronto a quelli odierni. C’era poi un sistema di bandiere che affascinava la mia fantasia di ragazzino».
Della Sampdoria, penseranno tutti. E invece no. O comunque non solo.
«Il Comune dava lo stadio con la bandiera dell’Italia lato gradinata Sud nell’angolo vicino alle tribune. Sul lato opposto, vicino ai distinti, c’era la bandiera della Sampdoria, mentre quella di Genova sventolava sull’angolo della Nord lato tribuna. Infine c’era la bandiera della squadra ospite, collocata sull’angolo della Nord lato distinti. Ovviamente, quando giocava il Genoa, veniva utilizzato lo stesso schema ma a parti invertite, con la bandiera rossoblù al posto di quella ospite, che veniva issata sulla Sud in sostituzione del vessillo blucerchiato».
Curiosa la storia delle bandiere delle squadre ospiti.
«Inizialmente tutte le società di serie A avevano la propria bandiera, con i loro colori giusti. Ma col passare degli anni venivano su squadre nuove e il Comune, per risparmiare, ha cominciato a usare bandiere con colori standard. Gettonatissima la bandiera bianca con striscia rossa in mezzo. Insomma, l’idea iniziale è andata via via imbastardendosi, fino a sparire con la ristrutturazione di fine anni Ottanta. Tra l’altro, con la demolizione della gradinata Sud sono scomparse anche le due grosse scritte pubblicitarie che erano dipinte sul cemento dei due angoli alti e contenenti la sola parola “HATU”: una pubblicità che i genoani usavano per dire che la Sud era la gradinata dei “gondoni”».
Ma insieme alle bandiere e alle vecchie “insegne” pubblicitarie, la ristrutturazione del Ferraris si è portata via anche una cosa che Toninho Cerezo amava alla follia: il prato a schiena d’asino. Ultimo simbolo di un vecchio stadio che non tornerà mai più.
ROBERTO BORDI