Grande Stefano Okaka, Perla Nera dei campi di calcio. Okaka è rinato con la maglia della Sampdoria.
Prima molte stagioni difficili e anche la tentazione di appendere gli scarpini al chiodo. Sembra incredibile, vedendo lo Stefano attuale.
Ma Okaka ha avuto difficoltà a ritagliarsi gli spazi confacenti al suo valore: faceva panchina allo Spezia in serie B: due anni più tardi ha trovato addirittura la Nazionale. Il calcio è strano.
Ora Okaka è uno dei centravanti più completi della massima serie: le grandi squadre lo bramano, ma lui resta un punto saldo della Sampdoria, valorizzato al massimo dal talento di mister Sinisa.
Interessante l’intervista che Okaka ha rilasciato alla Gazzetta dello Sport:
“Mi sento italiano – dice il John Coffey blucerchiato, amato da noi tutti. “A maggio mi hanno telefonato per propormi di giocare per la Nigeria, ma ho detto no. Però il mio passato è là e oggi mi sento come un albero che non conosce le sue radici. Io sono dottor Jekyll e Mister Okaka. Mia madre diceva che in campo mi trasformavo: è vero. Fuori un bonaccione, dentro una bestia che non guarda in faccia a nessuno, è la mia forza”.
Un pensiero sul suo passato. Il colore della pelle ha influito sulla sua vita?
“Quando ero piccolo non navigavamo nell’oro, ma almeno una volta al mese papà portava la famiglia al ristorante e quella era la nostra festa. Nessuno ci ha fatto mai pesare il colore della pelle. A Cittadella sì, quando andavo a scuola. Non per il fatto di esser nero, piuttosto per il mio secondo nome “Chuka”, che significa “Dio al di sopra di ogni cosa”.
L’anno dopo, quand’ero alla Roma, mi chiesero l’amicizia su Facebook: col cavolo, per me erano morti.
L’amicizia che nasce quando sei piccolo o non sei nessuno è l’unica incontaminata. Quelle che vengono dopo sottintendono sempre un pizzico di interesse. Un mio grande amico è Cassano: a Parma era l’unico a credere in me e a proteggermi. Mi diceva sempre: «L’acqua che sta in cielo prima o poi scende, e scende forte».
Ho avuto dei momenti duri in carriera, ma grazie a quei momenti sono arrivato alla Samp. Ricordo la frase di Kobe Bryant: «Se non credi in te stesso, nessuno lo farà per te». Ci credo molto.
La folgorazione l’ho avuta a 10 anni con una cassetta che aveva questo titolo: il meglio di Ronaldo. Non riuscivo a smettere di guardarla. Lui era il calcio, non un calciatore: semmai un artista. Per me non esistevano altri, dopo di lui non ce ne sono stati altri e temo che non esisterà un altro come lui. Il gol con il Barcellona contro il Compostela ce l’ho stampato dentro gli occhi e quando a Catania, lo scorso campionato, sono partito da metà campo ho pensato: «Visto che studiare così tanto il Fenomeno ti è servito?». Quel giorno fu puro istinto, quando l’ho rifatto contro il Torino invece era consapevolezza”.