Bellissima intervista a Domenico Arnuzzo: attraverso i suoi racconti si compie un viaggio incredibile nella Sampdoria di ieri e di oggi. Pubblichiamo un estratto dell’intervista realizzata dall’ottimo Roberto Bordi per il sito Medium.com.
Ecco alcuni passaggi notevoli:
Genova, prima metà di giugno. È un pomeriggio rinfrescato da una piacevole brezza primaverile quando, dal portone della sua casa di via Corsica, a Carignano, spunta un volto familiare ai tifosi della Sampdoria.
Un personaggio che ha speso un’intera vita in blucerchiato, vantando un cursus honorum degno di un senatore dell’antica Roma. Prima calciatore e responsabile del settore giovanile, poi team manager e direttore sportivo durante la presidenza di Paolo ed Enrico Mantovani.
E oggi, un semplice tifoso. Si fa presto a dire “semplice”.
Perché Domenico Arnuzzo è un sampdoriano doc. Lo leggi nel suo sguardo. Nei suoi occhi che luccicano quando, sbrigati i convenevoli di rito, si comincia a parlare di cose serie. Della Sampdoria, di ieri e di oggi, che ha permeato tutta la sua esistenza, dall’infanzia fino alla pensione.
«Sono nato a Sampierdarena – esordisce Arnuzzo – e non potevo che tifare Sampdoria. Da bambino andavo al Ferraris tutte le domeniche, anche quando giocava il Genoa. Ma il mio cuore è sempre stato blucerchiato, ancor prima di entrare, a 14 anni, nel settore giovanile della Samp».
La sua prima squadra è il Vittorino da Feltre, la seconda il Sant’Agostino. Finché una volta «l’avvocato Benito Traverso, responsabile del vivaio dell’Unione Calcio Sampdoria, propone a mio padre di farmi giocare in blucerchiato».
Vestire i colori della squadra del proprio cuore: per un ragazzino imberbe, un sogno che diventa realtà. Tutti si ricordano di Arnuzzo come terzino destro. Ma in realtà, nel Sant’Agostino, Domenico giocava punta.
«Un tempo il più bravo stava sempre davanti e anche oggi è così. Il ruolo l’ho cambiato all’improvviso, durante una partita a 7 contro il Genoa a San Martino, nel campetto di via Semeria. Stavamo vincendo 1–0 e per necessità l’allenatore mi ha spostato dietro. Da quel momento, ho sempre giocato in difesa».
Il campetto a 7 di via Semeria, a San Martino, dove Arnuzzo ha tirato i primi calci
Era un difensore vecchio stampo, Arnuzzo. Di corsa e di temperamento, di grinta e marcatura, ovviamente a uomo. Anche se l’avversario più difficile lo ha marcato all’esame di maturità.
«Non ero un cattivo studente. Medie al Doria e superiori al Vittorio Emanuele, in Largo della Zecca, dove studiavo da geometra. Il giorno della maturità mi sono presentato in anticipo. Il motivo? Volevo essere sicuro di sedermi a fianco di Petrucci, il più bravo della classe. Marcato lui, nessuno poteva più farmi paura».
Libri e pallone, tutti i santi giorni.
Dalle sei di mattina fino all’ora di andare a dormire. Una vita regolare, anche nell’alimentazione. «Di ritorno da scuola prendevo il 35. Sulla tavola, bistecca e spremuta. E poi subito fuori di casa, in fretta verso corso Aurelio Saffi per prendere il 13, destinazione via Bengasi, a Sestri Ponente».
Dove c’era il campo della Sestrese, utilizzato anche per gli allenamenti dei ragazzini della Samp, agli ordini del leggendario Cherubino Comini.
Tra di loro anche Domenico che il papà, titolare di un’impresa di costruzioni, esortava a inseguire un sogno che, sotto sotto, era anche il suo.
«Mio padre mi diceva: “Tu pensa a giocare e poi vediamo”. Era molto bravo a non crearmi pressioni. Mi chiedeva anche di continuare a studiare, per non farmi trovare impreparato se non fossi riuscito a fare il calciatore professionista». Un traguardo che, allora, richiedeva un percorso lungo e tortuoso.
Infatti, negli anni Sessanta, tra la formazione Berretti e la prima squadra c’era un cuscinetto: la cosiddetta “De Martino”, cioè la squadra delle riserve. Qui i ragazzi della Primavera potevano farsi conoscere da tifosi e addetti ai lavori, giocandosi le proprie carte per tentare il salto in prima squadra.
Un contesto di “guerra quotidiana” in campo, animato da due gruppi di giocatori agli antipodi per storia e anagrafe, ma uniti dallo stesso obiettivo.
Da un lato le vecchie testuggini con la loro enorme corazza, dall’altro giovani tartarughe che, come Domenico, provavano con tutte le loro forze a emergere, tirando fuori la testa da un guscio ancora da calcificare.
Una “lotta per la sopravvivenza” da cui Arnuzzo esce vincitore nel 1969. È la Sampdoria allenata da “Fuffo” Bernardini e trascinata da Salvi e Cristin. Il 7 dicembre, la settimana dopo il pareggio interno per 1–1 contro il Milan, i blucerchiati sono impegnati a Palermo in un delicato scontro salvezza.
«In settimana Ubaldo Spanio, il terzino destro titolare, si prende l’influenza. Prima di partire per la Sicilia il “dottore”, com’era soprannominato Bernardini, mi comunica la sua intenzione di farmi giocare. La cosa incredibile è che sia Bernardini che il suo vice Poggi si ammalano a loro volta, tant’è che a Palermo, almeno formalmente, l’allenatore è il medico sociale Andrea Chiapuzzo. Quant’è finita? Non ricordo (ride)»
Negli anni a venire Domenico Arnuzzo, a suon di prestazioni maschie e gagliarde, diventa uno degli uomini-simbolo della Sampdoria. Sempre lì, a presidiare la fascia destra, senza mai superare la metà campo.
Era la Sampdoria del presidente Piero Colantuoni, che i più criticoni chiamavano con affetto bonario “l’avvocato di campagna”. Il patron che allo stadio portava tre cappellini di colore diverso, cambiandoli progressivamente a seconda del risultato parziale.
Era una Samp povera ma bella, che ogni anno si arrabattava punto dopo punto per salvare la pellaccia. Domenico ne incarnava bene lo spirito.
Grinta, furore agonistico e “garra”: in campo, Domenico Arnuzzo non mollava mai
Tra il 1969 e il 1981, anno del suo ritiro dal calcio giocato, Arnuzzo colleziona in maglia blucerchiata 195 partite e un solo gol, importantissimo: quello del 2–2 contro il Foggia, a un minuto dalla fine, il 24 marzo 1974.
Un’altra sfida salvezza, l’ennesima dei suoi anni trascorsi con indosso i colori più belli del mondo.
«È stato il classico gol della disperazione. Stavamo perdendo 2–1 e mi sono fiondato in area avversaria. A un certo punto Orlandi fa partire un lungo traversone dalla sinistra. La palla passa tra mille gambe e mi arriva all’altezza dei 15 metri: piattone di prima intenzione e gol. Un ricordo che a distanza di tanto tempo porto ancora nel cuore, anche se di quegli anni preferisco ricordare i duelli con gli attaccanti che dovevo marcare: su tutti il grande Pulici del Toro».
Nel 1981, compiuti 34 anni, Arnuzzo abbandona il calcio giocato.
Finito un ciclo, Domenico ne comincia subito un altro come dirigente della Sampdoria, quando il presidente — e diciamolo, amico — Paolo Mantovani gli affida l’incarico di responsabile del settore giovanile.
Nello stesso periodo, la Sampdoria si fa notare nel panorama nazionale per gli investimenti mirati fatti su giovani calciatori italiani. Tra di essi un ragazzo di cui si parlava un gran bene: Roberto Mancini.
«L’ho visto la prima volta a San Siro, quando giocava nel Bologna. In tribuna c’era una riga di osservatori che non finiva più! Dopo un primo tempo così così, anche per via di un infortunio che ne aveva condizionato il rendimento in campo, è stato sostituito. Ovviamente, finito il mio lavoro, me ne sono andato. Nella relazione ricordo di avere scritto: “Ha fatto intravedere grandi potenzialità”. In realtà, avrei dovuto parlare di prestazione negativa».
È stato Domenico Arnuzzo a caldeggiare l’acquisto di un giovane fantasista del Bologna…
Arnuzzo non lo ammetterà mai ma chissà, forse è stato per questa mancata bocciatura che la storia della Sampdoria ha preso la strada che tutti conosciamo. Merito suo? Non solo. Nel mercato il presidente aveva una voce in capitolo molto importante. Funzionava così. Mantovani chiedeva al direttore sportivo — prima Nassi, poi Borea — e ad Arnuzzo: «Chi è il miglior giovane italiano nel ruolo? Compratelo a ogni costo».
Una frase da prendere alla lettera. Infatti, pare che in poco meno di 15 anni il Presidente abbia speso qualcosa come 250 miliardi di lire. Spiccioli…
Ma nel suo periodo da dirigente dell’area tecnica della Sampdoria, Arnuzzo ha caldeggiato l’acquisto di tanti altri talenti del calcio italiano e non solo.
«Il colpo di cui vado più fiero è stato Boghossian a parametro zero. Era un centrocampista molto forte, ma dal fisico fragile, che giocava nel Napoli allenato da Lippi. Chiamo Marcello e gli chiedo di poter parlare con il medico sociale degli azzurri, che mi rassicura sulle sue buone condizioni fisiche. Alla Sampdoria ha fatto benissimo, tant’è che lo abbiamo rivenduto a 14 miliardi al Parma. Dove si è subito infortunato [ride]».
Negli anni Novanta, la Sampdoria si fa notare fra le squadre italiane ed europee per un’attenzione particolare, ai limiti della morbosità, per i calciatori di nazionalità jugoslava.
Arnuzzo andava spesso a Belgrado per ammirare dal vivo le partite di quella straordinaria fucina di talenti che era la Stella Rossa.
«Da loro abbiamo preso gente come Mihajlovic e Jugovic, due ragazzi che alla Sampdoria hanno fatto benissimo.».
Alcuni anni dopo approdava sotto la Lanterna un altro uomo-simbolo: Francesco Flachi.
«Comprato come Boghossian a parametro zero, ma dalla Fiorentina. Per avere informazioni su di lui, ho chiamato il ds viola Nello Governato, mio ex compagno di squadra ai tempi del Savona. Cecchi Gori non voleva rinnovargli il contratto e allora lo abbiamo preso noi. Dio solo sa il bene che voglio a Francesco».
Ma nonostante un grande fiuto per gli affari, anche Arnuzzo ha preso qualche granchio. «Il rimpianto più grande si chiama Sgrò, pagato un sacco di soldi. Purtroppo non ha reso secondo le attese iniziali. Stessa cosa Vasari, voluto da Ventura il primo anno di B. Mi aspettavo che facesse di più».
Poi nel 2001, dopo 40 anni esatti in blucerchiato, le strade di Arnuzzo e della Sampdoria si separano.
Il nuovo presidente Riccardo Garrone procede con la ristrutturazione dei quadri dirigenziali della società, accentrando la gestione dell’area tecnica e di quella amministrativa nelle mani di Beppe Marotta.
Senza fare alcuna polemica, Arnuzzo abbandona così il suo incarico di direttore sportivo della Samp. Giusto il tempo di ricevere una telefonata dall’amico di mille… uscite in barca Marcello Lippi, che lo fa assumere come osservatore della Juventus.
Ma per Arnuzzo, in conclusione, che cosa significa essere sampdoriani?
«Vuol dire sentirsi parte di una grande famiglia, vestendosi di quattro colori unici. Mi ricordo ancora le notti insonni prima dei derby. E quando mi addormentavo, magari per qualche minuto, sognavo di segnare un gol in rovesciata per poi andare a esultare come un matto sotto la gradinata Sud».
ROBERTO BORDI
Per leggere l’intervista integrale con altri aneddoti della vita di Arnuzzo in blucerchiato, cliccate qui
2 commenti
mitico Dome!!!!!!!!!!!!!!
ti ho visto giocare quando ero ragazzino………
ti ho conosciuto ed abbiamo giocato assieme per un po’ di anni……..
una persona di grande umanita’ come ce ne sono poche…
mai una parola fuori posto,sempre equilibrato e positivo….
grande sampdoriano!!!!!!
E’ solo una precisazione. L’ “avvocato di campagna” si chiamava Mario e non Piero.