L’intervista di Roberto Bordi, nostro nuovo collaboratore, a Vittorio Benvenuti, volto storico della tifoseria blucerchiata
«Dai Vittorio, raccontami come sei diventato sampdoriano dopo la guerra».
«Ma è passato così tanto tempo. E poi a chi interessa ormai?».
«A me di sicuro. Poi vediamo se farci un articolo».
«Cuntentu ti…».
Nasce tutto così, un giorno di sole a Genova Pegli.
Vittorio Benvenuti, occhi azzurri e una delicata distesa di capelli bianchissimi sempre ordinati, abita lì e mi invita a casa sua per parlare dei colori più belli del mondo. Il rosso e il nero della Sampierdarenese (e di Stendhal). Il bianco e il blu dell’Andrea Doria, che giocava sul campo della Cajenna, dove sarebbe stata costruita la gradinata Nord. Lo stemma di Genova sul petto. E il “baciccia” in alto a sinistra. Colori e simboli mirabilmente fusi in una squadra di successo, sostenuta all’inizio della sua storia da un gruppo poco nutrito di tifosi. Nella Genova degli anni Cinquanta, infatti, i sampdoriani reclamavano un posto al sole. Non solo in campionato, ma nella società. Al lavoro come a scuola.
«Molti bambini tifavano Genoa. Era inevitabile. Indubbiamente, nascere nel 1893 aveva portato qualche vantaggio». Ma Vittorio è un ragazzino riflessivo, che non si fa traviare dall’istinto. All’inizio gli piace il calcio e basta. Non ha ancora le idee chiare su chi tifare. Nei primi anni Cinquanta suo papà, la domenica, comincia a portarlo allo stadio “Ferraris”. Che giochi la Samp o il Genoa, poco importa. Il piccolo Vittorio vuole vedere coi suoi occhi i grandi campioni di allora. Lorenzi, Nyers, Schiaffino. Il blucerchiato Bassetto e la bandiera rossoblù Becattini.
«Il biglietto per la gradinata si comprava ai botteghini. Poi eri tu a decidere se andare in Nord o in Sud. A quel tempo non c’era una distinzione netta di tifo tra le due curve. Anche se ho capito ben presto che conveniva tenersi lontani dalla Nord». Il motivo? Semplice. «Come ti dicevo, nella mia infantile ingenuità simpatizzavo ancora per entrambe le squadre genovesi. Ma la prima volta che vado a vedere la Sampdoria succede un fatto increscioso. Segnano i blucerchiati e mi lascio andare a un grido liberatorio. Vicino a me c’è grande freddezza, per non dire astio. Un ragazzino si gira verso di me e mi urla: “Cosa esulti che hanno segnato le merde!”. Possibile che tifino contro una squadra genovese? Non capisco. Anzi, Mi è tutto chiaro quando, qualche minuto dopo, l’altoparlante annuncia il vantaggio del Genoa a Padova. La gente che mi circonda urla di gioia e si abbraccia. Mi sento a disagio».
Come diceva Totò, apriamo una parente. Allora le occasioni per vedere il calcio dal vivo erano poche. La tv era agli esordi e la domenica era il giorno “di festa”, con i riti e le abitudini della messa, delle paste e del vestito buono. Inevitabile che il genovese di mezza età li ripetesse regolarmente, anche quando a Marassi giocava la squadra rivale. Contribuendo a dissipare i dubbi di alcuni giovanissimi tifosi come Vittorio.
«Allora il Bisagno non era spoglio come adesso. Il greto fremeva di attività umane. C’erano orti, campi di bocce e persino un campetto da calcio. Un giorno, di ritorno dallo stadio, la mia attenzione viene catturata da una partitella che si sta giocando lì sotto. Da un lato una squadra in maglia blucerchiata, dall’altro dei ragazzini in divisa nera. Mi son fermato a vederli giocare. E con me altre persone, soprattutto adulti, che nei confronti dei doriani vomitavano insulti irripetibili: “merde!” e “uccideteli”. È stato in quel preciso momento… Che sono diventato Sampdoriano». (continua).
ROBERTO BORDI
1 commento
la loro “cultura” viene da lontano……..sempre stati una tifoseria invidiosa e in evidente complesso di inferiorita’.poveri bibini fanno quasi tenerezza